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Nelle numerose tribune politiche conosciutissimi leader di partiti politici non danno una spiegazione all'impoverimento dei lavoratori dipedenti e dei tanti microimprenditori che “tirano i remi in barca” più spesso aiutati dagli usurai, che dal libero mercato.

I politici non danno alcuna spiegazione sull'improvisso aumento dei prezzi dei beni di prima necessità avvenuto con la moneta unica, che ha impoverito pare irreversibilmente, non solo le classi sociali più svantaggiate, ma ha posto “sul filo del rasoio” classi interedie ora al limite della soglia di povertà.

Non danno alcuna risposta in merito a quello che è successo con l'introduzione dell'euro, sollevano responsabilità verso venditori troppo audaci, e consumatori troppo dissattenti al portafoglio, senza dimenticare che gas, energia elettrica e acqua sono servite da ex aziende pubbliche, seppure trasformate in spa, sono comunque governate dal pacchetto azionario delle provincie, delle regioni e dei comuni.

Quando il gas aumenta di costo, la responsabilità diventa dei russi che vogliono “staccarci il tubo” se non cediamo ai loro compromessi, e dunque perchè - per gli stessi opinionisti - un fornaio se aumenta il costo della farina (la sua materia prima) e del gas (guarda caso) non può permettersi di aumetare il costo del pane?

 

Diciamo che non tutto è aumentato con così tanta spavalderia come il costo dei beni di prima necessità. I prodotti della grande industria, come automobili, elettrodomestici sono aumentati in proporzione inferiore per il semplice motivo che quasi mai sono proodotti entro i nostri confini, spesso provengono dal più povero e sfruttato estremo oriente.

Aziende che non esitano a reinvestire il loro risparmio ottenuto sui costi di produzione nell'immagine e nello stile di vita che il prodotto deve richiamare.

E' prassi normale per un'azienda inventare il prodotto per poi successivamente produrlo dove si trovano le facilitazioni economiche migliori.

Così l'amministratore delegato della Fiat Auto Marchionne, ha rilanciato il Made in Italy, con la nuova 500, investendo milioni di euro in marketing ed in personale ultra specializzato, ma dimenticandosi le catene di produzione in Polonia.

Dimenticandosi di dire che per gli operai nel rilanciato Made in Italy il loro ruolo non esiste. Distruggendo così il vero mito della 500, quello dell'Italia del boom economico che produceva e vendeva tutto al proprio interno, distribuendo ricchezza a tutta la catena produttiva e commerciale, dalla grande Fiat al piccolo elettrauto di campagna.

Tutto ciò è emblatico.

E ben si guardano i giornali nel dire che oggi la Fiat è una azienda che desidera un' immagine a qualunque costo, e poco interessa se la 500 non è l'utilitaria più economica del mercato come fu la sua antenata. E al contrario, è per un'elite che può permettersi di spendere 13-14.000 euro per una non comodissima seconda auto.

In questo mercato è arrivata molto prima la BMW con la Mini, la quale partendo 5 anni prima, con un prodotto tecnologicamente più avanzato si è accaparrata quella classe media che negli anni successivi avrebbe ridotto le sue disponibilità economiche a causa dell'aumento del costo della vita. Mantenendo comunque il Made in England essendo un'automobile inglese, con supervisione bavarese.

Qui rimane il dubbio: se la Fiat abbia inventato la 500 per ragioni di mercato e quindi per guadagnare sopra il fenomeno da lei inventato o se semplicemente si tratta dell'evento della Fiat 500, riesumando il mito in questa epoca nostalgica degli anni '60 (chissà perchè) per parlare di Fiat, e rafforzando così la propria immagine con lo scopo di aiutare qualche produttore orientale - magari indiano - a continuare in ragione dei costi a produrre automobili lontano dall'Italia ma con tutta l'apparenza del rinato marchio Fiat.

In questo scenario significherebbe dire che non si vedrà più una catena di montaggio in Italia, in quanto non conta più dove produrre l'automobile, ma bensì unicamente dove venderla.

Ora racconto un episodio che riguarda l'industria automobilistica italiana, un episodio direi dimenticato dall'opinione pubblica , ma che a distanza di anni, fa notevolmente riflettere sulle scelte disastrose della grande industria italiana.

logo_alfaromeo.jpgLo scheletro nell'armadio piuttosto ingombrante è dell'ex presidente dell'IRI Romano Prodi, che ebbe la fortuna ( mancata ) o l'incombenza di aver avuto il controllo dell'Alfa Romeo in un periodo di grande crisi quando i giapponesi della Nissan erano interessati a produrre in cooperazione con il glorioso marchio del biscione.

Il biscione è a pari merito con Ferrari , uno dei più importanti miti automobilistici mondiali, in particolare fuori dai confini nostrani come in Inghilterra, è una delle automobili più ricercate dagli appassionati, in quanto a metà degli anni '60, Alfa Romeo e Lancia erano automobili che in termini di affidabilità, stile e caratteristiche di guida potevano definirsi gemelle in qualità con le tedesche Porsche e Mercedes.

Poi cosa accadde all'Alfa?

L'industria automobilistica italiana ( come quella europea in generale ) iniziò la sua prima brusca frenata nel 1973 con l'Austerity e la crisi petrolifera, che purtroppo spinse i produttori di automobili a dismettere i vecchi sistemi produttivi in ragione al costo della vita che si era impennato, mettendo così sul mercato automobili sempre meno curate e belle.

Specialmente le italiane.

La crisi del '73 in Italia coincise con la perdita del potere d'acquisto ancora una volta del ceto medio e quindi mettendo in seria difficoltà Lancia e Alfa Romeo, il quale “core business” era appunto questo.

Le scelte produttive di quell'epoca hanno lasciato molto spazio nel mercato italiano per i prodotti di oltrecortina che avevano ottenuto un notevole riguardo già nei primi anni del boom economico come Mercedes, specializzandosi in un prodotto di lusso e qualità, e già all'epoca vantava un mercato europeo e mondiale ormai radicato in vendite e fama, a differenza delle nostre automobili medie che si vendevano quasi unicamente in Italia.

E per di più durante la prima crisi economica dal dopoguerra.

Purtroppo per l'industria automobilistica italiana questo divario coi tedeschi si amplificò negli anni successivi. L'automobile italiana perse completamente le doti di qualità costruttiva, affidabilità e design, e verrà ritenuta a metà degli anni '80 una scelta di acquisto poco affidabile.

La conduzione IRI non fu certo un miracolo in Alfa Romeo, seppur con qualche successo commerciale, le entrate non bastavano e così non si abbandonò l'esigenza di proporre una berlina di costo abbordabile con il marchio del biscione.

Nell'Ottobre dell' '80 l'Alfa Romeo strinse a Tokio l'accordo con Nissan per produrre un'automobile che avrebbe fatto diventare gli italiani subito alfisti: l'Arna.

In questa vicenda dobbiamo fare alcune doverose precisazioni: i prodotti automobilistici giapponesi erano ormai presenti sul mercato europeo grazie alla loro affidabilità, ad eccezione dell'Italia cui una legge imponeva il contigente sull'importazione di automobili dal Giappone.

Così sul mercato italiano non avrebbero mai fatto sede Toyota, Honda ed altri, probabilmente a tutela delle case automobilistiche italiane ed europee.

L'unico modo dei giapponesi per aggredire il mercato italiano era quello di produrre in Italia, in partecipazione con una casa automobilistica locale.

All'epoca utopisticamente si sarebbe visto in quell'accordo quello che poteva essere il connubio di stile e marchio Alfa Romeo rigorosamente italiano e di importanza storica e l'affidabilità dei prodotti giapponesi, che oggi avrebbe dimostrato una maggiore competitività sul mercato ed anche investimenti in tecnologia e mantenimento dei posti di lavoro.

In altre parole un ottimo antidoto per competere sull'alta qualità e stile che i tedeschi avevano già portato in Italia senza difficoltà, come il noto fenomeno VW Golf, la cui Arna era appunto la competitrice.

Purtroppo furono troppo pochi gli italiani che vollero diventare alfisti benchè si richiedessero pochi soldi: l'automobile non vendette per nulla e Prodi consegnò poco dopo l'Alfa Romeo alla famiglia Agnelli.

L'Arna era un progetto sbagliato, la carozzeria era derivata da un modello poco attraente Nissan e la meccanica era Alfa Romeo, non fu come vestire con un bellissimo stile italiano una affidabile meccanica nipponica.

Considerate che le Mercedes anni '80, la 190, il W124, la serie S erano le berline più eleganti dell'epoca, disegnate a Stoccarda dal designer italiano Bruno Sacco e sarebbe stato un ottimo suggerimento sfruttare il design italiano.

Ma a cosa pensava la classe politica ed i sindacati in quei primi anni '80?

Era così lontana la mia ipotesi della sinergia italo-giapponese?

Purtroppo era soltanto una questione di tempo.

Questo processo economico ebbe diverso esito in Inghilterra quando Rover si mise a produrre le Honda, perchè la Corona sapendo della situazione in cui versavano le sue imprese diede molta più fiducia ai giapponesi.

Dopo la prima metà degli anni '80 in Inghilterra, Nissan, Toyota iniziarono a costruire nuovi stabilimenti, con facilitazioni economiche da parte della Corona in cambio di posti di lavoro in industrie più competitive.

L'Inghilterra della Teacher aveva caratteristiche sul piano economico simili a quelle italiane, con un'industria automobilistica prestigiosa, ma non adeguata alla concorrenza teutonica.

Le case automobilistiche inglesi furono dismesse a metà degli anni '90, vendendo i propri marchi e stabilimenti principalmente a Ford e BMW, rimandendo indipendente, per poi chiudere definitivamente, la Rover.

Così le industrie giapponesi sono state la cartina di tornasole per il governo inglese a difesa dell'occupazione e rinnovando nel contempo l'industria inglese ormai inadeguata alla concorrenza mondiale.

Ora, proviamo a chiederci cosa sarebbe successo se il patto Alfa-Nissan si fosse fondato su una più stretta e valida collaborazione?

Si direbbe che la storia non si può raccontare con i se, ma Nissan è diventata alla fine degli anni '90 un'azienda europea, diciamo francese.

Renault che negli anni ottanta produceva con standard qualitativi molto simili ad Alfa Romeo ed incorporando un forte capitale pubblico, decise alla fine degli anni '90 di voltare pagina, diventando una delle case automobilistiche più invidiate in fatto di sicurezza e comfort, le principali qualità delle automobili tedesche.

Nissan alla fine degli anni '90 è un marchio in Europa di successo e la Renault decise di acquistarla, aprendo una sinergia costruttiva in Europa di altissimo livello.

Le automobili Renault sono le più sicure sul mercato da diversi anni, offrendo in fatto di sicurezza a prezzi popolari quello che propongono i tedeschi a ben più alto esborso.

Alcuni progetti Renault essendo particolarmente innovativi risultano più confortevoli delle classiche berline della stella a tre punte secondo il parere di diverse riviste.

Non hanno il mercato delle tedesche, ma almeno hanno dimostrato di saper fare meglio. Figuriamoci se il design come nel caso dell'Alfa fosse italiano...

Va da sé che l'amministratore Prodi in Alfa Romeo è stato un vero disastro e oggi i suoi discepoli in svendita elettorale reclamano migliore benessere per le classi più deboli.

E guardate bene, loro come altri parlano di competitivà e migliori salari ma si arrabbiano con i fornai se alzano il prezzo del pane.

A questo punto dobbiamo riflettere sul binomio competitività/salari più alti.

La 500 torna ed essere lo spartiacque di questo articolo.

Quella anni '60, vendeva in un'economia con importazioni trascurabili, e il denaro delle transazioni rimaneva dentro i nostri confini.

Chi comprava quell'automobile arricchiva l'Italia.

Negli anni '60 in effetti i salari erano aumentati per dare opportunità di allargare il paniere delle famiglie, per comprare la 500 e le Candy, per “far girare” il denaro guadagnato in eccesso.

Quello dell'economia del primo benessere italiano, quello che si guadagnava senza la competitività.Tutto questo spiega molte cose.

Oggi nell'economia allargata dobbiamo porci il problema della competitivà, della salvaguardia dei posti di lavoro, dello spostamento della ricchezza e delle risorse produttive in paesi a basso costo.

Tutti fenomeni che non possono controllare i cittadini ma che ne percepiscono solamente le conseguenze.

E così l'aumento della produzione fuori dai confini, provoca il necessario intervento degli ammortizzatori sociali nonchè la ricollocazione delle risorse umane e una evidente perdita di ricchezza per il paese.

Dunque siamo alle solite: un sistema industriale che non si è aperto all'innovazione, non può pensare di aumentare i salari quando la sua prima necessità è produrre dove costa meno e lasciare il lavoro in Italia ad una ristretta elite di manager della strategia di una comunicazione ad hoc.

Se si devono aumentare i redditti degli operai occorre innanzitutto che si produca in Italia, e che si mettano sul mercato prodotti che hanno prospettive di vendita importanti e legate alla loro competitività a livello globale.

Altrimenti continuiamo a dare la colpa al fornaio che alza il prezzo del suo pane.

Giusto a lui che non può produrlo all'estero.

a cura di Matteo Mantovani

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